lunedì 16 agosto 2010

Gallerie

In Post mortem di Yoram Kaniuk ricorre una stantia facezia attribuita al padre del protagonista, come unica barzelletta raccontata da un esemplare intelletto vigile quanto tormentato. Racconta del modo in cui si fanno le gallerie: gli americani, che negli anni del racconto erano il prototipo dell'efficienza tecnologica, mettono ai due capi della montagna squadre di ingegneri estremamente competenti, con macchinari estremamente avanzati e piani estremamente dettagliati; iniziano a scavare contemporaneamente per incontrarsi, infine, nel punto e nel momento previsti. I cinesi, invece, mettono un milione di uomini con pale e picconi da una parte della montagna e un altro milione dall'altra: se si incontrano, si ha una galleria, altrimenti se ne hanno due.
La facezia non è particolarmente divertente, ma ha il merito di illustrare una realtà che lo è ancora meno: se negli anni Cinquanta l'ammirazione per il progresso occidentale veniva compensata da quella per l'alacrità cinese, oggi il primo e la seconda si confondono nel calcolo contabile della convenienza dei diversi processi. In Cina si produce con modalità altamente inefficienti, secondo standard scadenti e con immensi costi sociali e ambientali, ma il bassissimo prezzo delle forze di lavoro è tale da compensare a usura gli investimenti necessari a produrre in modo migliore. Il segreto del travolgente successo del modello cinese starebbe tutto nella sua sostanziale arretratezza, che lo porta ad avere una maggiore intensità di lavoro non qualificato, tanto che le inefficienze del sistema, nella misura in cui rendono possibile l'utilizzo di una manodopera non specializzata, ne sono il punto di forza.
Tutto ciò confuta la corrente apologetica del progresso e dell'economia della conoscenza, che fanno dell'innovazione, della qualità totale, dell'efficienza, della formazione continua e della trasparenza tanto il punto di forza quanto il portato necessario dello sviluppo economico, mentre conferma l'ovvietà che lo sviluppo economico, nell'attuale modello, non misura altro se non i profitti, e che ciò che da un lato si chiama profitto dall'altro è sfruttamento. Andando un po' più a fondo, con la speranza di non perdersi in una galleria, si vede come questo modello si basi sull'astrazione del prezzo corrente come unico criterio di misurazione: se produrre uno spillo costa in Occidente 1 ora di lavoro e in Cina 3, è sufficiente che il costo del lavoro cinese sia inferiore a un terzo di quello occidentale per renderlo più conveniente. Tutto ciò a condizione che i costi ambientali, sociali e civili di questo divario siano derubricati come esternalità, altrimenti i conti salterebbero: se la logica, e la convenienza, di questo sistema sono senz'altro comprensibili per chi investe il denaro, si capisce molto meno come ciò possa essere accettato dall'insieme sociale e, addirittura, proposto come modello unico.
Spingendosi ancora un po' più in là nella galleria si trova, come è inevitabile in luoghi di lavoro caratterizzati da tanti incidenti, il solito spettro. In questo caso, è il temutissimo spettro marxiano della caduta tendenziale del saggio di profitto: dal momento che il modello organizzativo dell'industria tende ad aumentare sempre più la quota del capitale fisso (tecnologia e impianti) e a ridurre quella del capitale variabile (lavoro), allora il profitto, che si ricava solo dal pluslavoro e quindi dal capitale variabile, tenderebbe a diminuire strutturalmente, portando al collasso del sistema. Si tratta però di caduta tendenziale, perché esiste un modo per contrastarlo, tipicamente aumentando lo sfruttamento esercitato sul lavoro. La novità di questi anni è che il capitale variabile sta tornando di moda, proprio in virtù dell'estremo deprezzamento del lavoro.
Il dato positivo di tutto ciò è che, se davvero viviamo in una riedizione del Diciannovesimo secolo, ci si può dar da fare perché la prossima riedizione del Ventesimo riesca meglio della precedente.

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