mercoledì 10 settembre 2014

Credo che nella chirurgia plastica si incrocino due elementi di fondo. Il primo è che si tratta di una tecnica, estremamente potente ma che fa, a modo suo, esattamente quello che fanno tutte le tecniche, dal paleolitico in poi: trasforma il dato naturale in funzione di una progettualità culturale (o sociale, se si intende la questione in termini più marxisti). Il secondo dato è che questa trasformazione avviene seguendo una norma, un modello definito, che interviene su quanto vi sia di più proprio all'individuo, il corpo che noi stessi siamo, secondo degli standard di riferimento esterni. 
Trovo importante che questi standard siano definiti in relazione alla vista, vale a dire al senso "teoretico" per eccellenza, quello che ha bisogno di mantenersi a distanza dal proprio oggetto per coglierlo. Il primato della vista nella sensibilità occidentale, per lo meno da Aristotele in poi, si è sempre esplicitamente riferito proprio a questa distanza, che è matrice di oggettività e dunque di oggettivazione, di dominio, di un’estraniazione che permette di progettare la trasformazione (Derrida ha un paio di pagine interessanti in merito, se ricordo bene e Nietzsche ne parla diffusamente, per citare solo due nomi). Fin qui, come dire, tutto bene: la storia, il progresso, lo sviluppo della tecnica, insomma tutta quella roba che ci permette di riflettere sui fenomeni, di comunicare le nostre riflessioni e in particolare di farlo con un medium sofisticato come quello digitale, si situa proprio in questa distanza.
Il punto significativo sta nel carattere della trasformazione e nel suo luogo: il corpo, che viene piegato a una norma in continuo cambiamento, a un canone che non ambisce all’universalità classica (per esempio, quello della statuaria greca, tanto per citare il caso più noto), ma che cambia al ritmo della moda, vale a dire al ritmo di una macchina produttiva che non ha altro fine se non quello di perpetuare se stessa. In questo senso, allora, la chirurgia estetica è il puro dispiegamento di potenza del capitale, che interviene sul vissuto più proprio per dichiararlo cosa sua e operare una trasformazione che genera valore (il corpo rifatto a norma è “più spendibile”) e crea profitto (l’attività della trasformazione avviene come una qualsiasi altra attività capitalistica).
Tornando al tema della norma estetica a cui obbedisce la chirurgia plastica: si tratta di una norma disincarnata che, proprio in quanto oggettivizza il corpo ne ribadisce il preteso distacco dal sé, inteso come la volontà soggettiva di vedere il proprio corpo, appunto come oggetto, di paragonarlo a un modello esterno e di modificarlo di conseguenza, grazie a una prestazione acquistabile sul mercato. Ci vedo una paradossale ascesi che, come ogni ascesi, è profondamente nemica del sesso, e al tempo stesso ne è ossessionata.