lunedì 18 novembre 2013

Adolescenza e prostituzione

Giovane e bella viene annunciato come un film su una ragazza che si prostituisce, e la cosa ha ovvie risonanze con le cronache pruriginose di questi giorni.  Ma, anche se effettivamente al centro di tutto c'è una ragazza che si prostituisce, il tema centrale è forse un altro: si tratta dell'adolescenza, come condizione transitoria e ansiosa, in cui si scalpita per diventare adulti ma non se ne ha, in fondo, questa gran voglia. A ribadire questa chiave di lettura, più che le parole dello stesso Ozon (Le sujet du film, est avant tout : qu'est-ce que c'est que d'avoir dix-sept ans et de sentir son corps se transformer. L'adolescence n'est pas un moment sentimental mais hormonal. Quelque chose de fort physiologiquement se passe en nous et en même temps on est comme anesthésié. Du coup, on violente son corps pour le ressentir et pousser ses limites) vale la poesia di Rimbaud On n'est pas sérieux quand on a dix-sept ans, recitata e interpretata da tutta la classe della protagonista Isabelle nell'unica scena realmente corale di tutto il film, che per il resto ruota esclusivamente attorno a Isabelle, in un'attrazione centripeta che è tutt'uno con l'egocentrismo, se non con il solipsismo, dell'età di passaggio.
Un passaggio che Isabelle vuole compiere con decisione, senza bearsi nell'autoindulgenza di chi agogna la libertà degli adulti senza assumersene le responsabilità: la sua sostanziale solitudine non è una condizione esistenziale, ma l'affermazione di una inadeguatezza, nei ruoli e nelle forme, del rapporto tra sé e il mondo che la circonda. Il passaggio, allora, assume la forma universale della società presente: lo scambio economico, l'acquisizione di denaro attraverso una prestazione, che è sessuale solo perché questa è la forma che le viene offerta. Isabelle non sceglie di prostituirsi e non vi viene costretta ma, semplicemente, ci si trova; non agisce per sfida o provocazione ma per indifferenza, e per trovarsi in un contesto nel quale la sua transitorietà di dispensatrice di sesso a chiamata passa per un accordo preventivo, nel quale lei è, a tutti gli effetti, parte in causa.
Il denaro non è allora il mezzo per procurarsi beni, né il fine per il quale si lavora, ma il segno di una relazione transitoria e codificata, nella quale l'intimità del contatto è tutt'una cosa con la reciproca indifferenza che, proprio per questo, si fa oggettiva, a tal punto che lo stesso segno della relazione - il denaro - diviene oggetto, viene accumulato e non utilizzato, vale esclusivamente come riconoscimento dell'attività svolta che Isabelle, ancora una volta in modo solipsistico, esibisce a se stessa. Non appena l'affare viene scoperto, tutto rientra in un altro schema codificato, quello della ragazza difficile che sconcerta la famiglia, con le autorità pubbliche - polizia e psicanalisi, siamo in pieno territorio foucaultiano, come viene esplicitamente ribadito dalla menzione di sorveglianza e punizione da parte del mite patrigno - che intervengono prontamente e Isabelle rientra nel suo ruolo e nelle pratiche blandamente trasgressive di un'adolescenza standard, benedetta dalla famiglia liberale e moderna.
Proprio quando tutto sembra finito, ecco che la nuova primavera porta il vero passaggio: una relazione umana inattesa, un confronto tra soggetti che si riconoscono tra Isabelle e la vedova del suo ultimo cliente. Una relazione che può essere reale e autenticamente intersoggettiva soltanto perché avviene nel segno di una perdita, di un passato irrecuperabile, che può essere soltanto rielaborato in una reiterazione di luoghi e tempi che ne cambi il segno.
Ecco allora che il passaggio dall'adolescenza all'età adulta si compie nella transizione dal puro presente irriflessivo alla presenza riflessa in un passato che è, insieme, consapevolezza e traccia.

domenica 28 aprile 2013

La casta balena

L'attuale governo è nato dall'insipienza tattica del PD, che aveva in mano tutte le carte per eleggere un ottimo presidente della repubblica e costruire una maggioranza coerente con il mandato ricevuto dagli elettori. Dico insipienza tattica, ma dovrei dire impossibilità strutturale a reggere una manovra decisa e ardita, perché le sue parti non sembrano disposte ad agire in modo compatto: come si è visto dal quarto scrutinio, parlare del PD in modo unitario, come di un partito che prende collettivamente delle decisioni e poi vi si attiene, non ha più molto senso. A queste condizioni, la sola via percorribile era quella di votare Rodotà fin dall'inizio, snidare i franchi tiratori e rischiare la scissione: così come sono andate le cose, la spaccatura del PD è questione di tempo, destinata a essere più subita che agita.
Quello che dovrebbe essere evidente a tutti, infatti, è che ormai si è formato un nuovo blocco di potere, perfettamente rappresentato dall'attuale compagine di governo: l'area ex Margherita del PD, e quella più moderata del PDL, che esclude gli ex AN e persino gli esponenti di provenienza socialista, per rifare un bel monocolore DC con qualche travestimento appena accennato. Questa riedizione del centrismo, sconfitto alle urne e sempre vincitore nelle istituzioni, è il vero tratto caratterizzante di una legislatura che si gioca tutta sul piano della normalizzazione, grazie a una legittimazione reciproca tra i detentori sempiterni del potere, vale a dire la celebre casta, e un raggruppamento settario, incapace di elaborare alcunché al di fuori degli ukase del capo carismatico. Casta e setta esistono l'una in funzione dell'altra e hanno entrambe lo stesso interesse: togliere spazio alla politica.

mercoledì 10 aprile 2013

Strategia e fattore tempo

Analizzare le prospettive strategiche nel loro farsi è un'attività difficile e rischiosa, per tre ordini di motivi. In primo luogo, perché identifica gli attori semplificandoli spesso eccessivamente, riducendoli di necessità a soggetti unitari: la strategia è ciò che dà per scontata la tattica, il che va benissimo quando si ricostruisce a posteriori il senso degli eventi, ma può essere letale nel loro corso. In secondo luogo, questa pratica presume che il quadro sia chiaro, mentre le informazioni, in corso d'opera, sono sempre incomplete e inattendibili. Infine, e questo è l'aspetto di maggiore importanza, perché le motivazioni e gli obiettivi delle diverse parti in causa sono raramente chiari agli osservatori esterni, e spesso non lo sono nemmeno agli attori stessi; ciò vale nella strategia militare, dove almeno a grandi linee non è difficilissimo capire quali siano gli scopi, e vale molto di più nella strategia politica.

Nell'interpretare le posizioni di forza relativa e le possibili strategie per i tre principali attori dello scenario politico italiano, può essere allora utile misurarle rispetto a una dimensione, essenziale a ogni sviluppo strategico: quella del tempo. Ogni strategia, infatti, si sviluppa nel tempo, e si può dire che la differenza essenziale tra la dimensione tattica e quella strategica si giochi proprio sulla diversa importanza di questo fattore: la tattica parte da una situazione data e vi incide in un periodo limitato e sostanzialmente unitario, la strategia parte da un quadro generale che si sviluppa in gran parte autonomamente e tutte le azioni intraprese dai diversi attori hanno effetti che si dispiegano lungo archi temporali diversi e collegati.

Sembra chiaro che il PDL non possa che essere danneggiato dal passare del tempo: da una parte, le minacce giudiziarie prendono sempre più corpo, dall'altra un Parlamento maggioritariamente ostile, con forze che devono comunque motivare la loro esistenza, prima o poi dovrà prendere provvedimenti assai pericolosi per il loro leader. Anche il forte consenso ottenuto nelle ultime elezioni, e che si è presumibilmente rafforzato nelle ultime settimane, può cominciare a erodersi di fronte al crescente isolamento politico. Proprio per questo, il centrodestra ha ogni vantaggio a che si arrivi al più presto a un governo di compromesso o a nuove elezioni, approfittando della confusione tra le fila dell'avversario principale.

Anche per il movimento cinque stelle più il tempo passa, più le cose si complicano, e su diversi fronti. Innanzitutto, la tenuta del gruppo parlamentare non è affatto garantita, come si è visto in queste settimane; il processo di elezione del presidente della Repubblica, l'attività legislativa, le attenzioni dei media sono altrettanti pericoli per la leadership monocratica del movimento. C'è poi il logoramento che subisce ogni strategia basata unicamente sull'attacco continuo a tutti i costi: all'inizio possono essere conseguiti grandi risultati, ma a lungo andare diventa sempre più difficile controllare il terreno guadagnato e conservare la spinta offensiva, mentre il nemico si riorganizza. A questo si aggiunge il dato strutturale dell'urgenza della crisi economica e sociale, che richiede soluzioni reali e riconoscibili, e che può spingere buona parte dell'elettorato di protesta a cercare opzioni più pragmatiche. Se l'erosione del consenso elettorale può non essere un grande problema per un partito non interessato al governo, almeno nelle sue forme istituzionali, la possibilità di recuperare voti può rafforzare gli avversari.

Il PD, ovviamente, non si trova nella posizione di poter trarre il massimo vantaggio dall'uso accorto di tattiche dilatorie. Le fratture al suo interno, le impazienze renziane, le faide per la successione di Bersani rendono molto difficile l'utilizzo del fattore tempo, per il quale la compattezza sul fronte interno è un fattore necessario, se non indispensabile. L'unico modo per superare questa difficoltà e per non logorarsi quanto gli avversari è la definizione di una linea di condotta rigorosa e condivisa, il che pare al di là della portata del partito democratico: la delusione per la mancata vittoria elettorale e lo spaesamento per un quadro politico che non sembra offrire alternative tra alleanze improponibili o impossibili e il voto, con la congerie di assestamenti interni, primarie e altri disastri che lo accompagnerebbero, impongono al PD un senso di urgenza forse eccessivo.

Eppure, la faccenda sarebbe chiara: si tratta di farsi rinnovare il mandato esplorativo per cercare la fiducia in Parlamento, passare a Montecitorio, correre l'alea in Senato e rimanere eventualmente in carica per il disbrigo degli affari correnti, gestendo la partita del Quirinale e lasciando alle camere il compito di trovare l'accordo su progetti concreti, fino a sparigliare le carte e ottenere una fiducia piena. Per questo, sarebbe opportuno vedere il bluff di M5S e mettere al più presto al lavoro il Parlamento, per scollare i gruppi parlamentari dal guru e trovare aperture nella prassi quotidiana. Allo stesso tempo, sarebbe imperativo eleggere un Presidente della Repubblica autorevole, non troppo legato a qualche partito ma dotata di una forte identità politica di sinistra: per esempio uno come Rodotà. o come Barbara Spinelli, che possano essere   indigesti al punto giusto al PDL e che rendano abbastanza difficile il niet dei pentastellati.

In questo modo, si potrebbe dare alla legislatura il tempo di svilupparsi con iniziative pragmatiche e incisive, proprio in virtù della mancanza di una maggioranza stabile, mettendo Renzi nell'angolo e riassestando il partito democratico verso una successione solida e credibile, mentre gli avversari si sfarinano. Ma applicare un simile progetto è forse inconciliabile con il tragico autolesionismo piddino.

domenica 7 aprile 2013

Ridursi per purificarsi

Il fallimento dei diversi tentativi di trovare una forma di mediazione con il movimento cinque stelle ha una spiegazione assai semplice: tale movimento è alieno da qualsiasi mediazione. Ciò trova una spiegazione ufficiale nelle dichiarazioni del suo proprietario e dei suoi accoliti maggiormente fidelizzati o fanatizzati, che consiste nella litania della diversità, dell'irriducibilità e della superiorità: da ciò conseguirebbe la refrattarietà a qualsiasi alleanza con soggetti diversi, e pertanto infidi.
Se questo comportamento è spiegabile, nei termini della psicopatologia, come risultato di una sindrome paranoica, come sostiene con dovizia di argomenti Malvino, qui interessa comprenderne le linee strategiche, più che comprenderne i motivi. Ogni normale partito politico, infatti, dopo aver conseguito un forte consenso elettorale, tende a capitalizzare tale risultato (o, il che è lo stesso, a esercitare il mandato degli elettori secondo le logiche della democrazia rappresentativa) per insediarsi al governo o, per lo meno, per contribuire a indirizzarne le politiche. I pentastellati, invece, si arroccano, si riuniscono in improbabili convegni a metà tra la riunione segreta e la gita fuori porta, si limitano a ribadire la loro estraneità tanto da cortocircuitare la loro (ampia) retorica e (limitata) prassi della trasparenza, fino a utilizzare le due soluzioni estreme della comunicazione pubblica: ribadire la propria purezza nella forma evangelica del chi non è con me è contro di me, e parlare d'altro, per esempio del Monte dei Paschi.
Il dato interessante, a cui non mi pare si faccia sufficiente attenzione, è che questo comportamento è del tutto opposto a quello adottato in Sicilia, dove il M5S è, di fatto, parte della maggioranza di governo, e dove tale partecipazione viene rivendicata, nelle parole del proprietario del movimento e dei suoi più illustri fiancheggiatori. In altre parole, e mi sembra chiaro che questo debba essere stato il pensiero dei vertici del PD, il modello siciliano poteva essere visto come il precedente a cui rifarsi, se non come l'incubatore di un possibile governo nazionale.
Se non è accaduto così non è, credo, per una forma di schizofrenia da parte di un soggetto politico che pensa in un modo a Palermo e in un altro a Roma, o perché con il 15 per cento ci si comporta in un modo e con il 25 in un altro: la prima interpretazione mi pare troppo psicologica, la seconda troppo politica. Credo che si tratti di una questione di egemonia, sulla scena politica e, soprattutto, all'interno del M5S, che proprio per i suoi risultati elettorali si sta trasformando, di necessità, da aggregato eterogeneo tenuto insieme da un leader carismatico in soggetto politico a tutti gli effetti. La caratteristica primaria di un soggetto politico, infatti, anche quando esso sia maggiormente caratterizzato dal leaderismo e dal culto della personalità, è proprio la sua pluralità: per quanto sia importante il leader, in esso esistono altre personalità, diverse specializzazioni e diverse opzioni tattiche e persino strategiche. Accade oggi nel PDL, per esempio, come è accaduto nel PCUS staliniano o nella NSDAP, per quanto tutte queste formazioni fossero indubbiamente dominate da un leader carismatico.
In altre parole, un M5S coinvolto nel governo a livello nazionale dovrebbe fare i conti con istanze, modalità e tempi decisionali diversi da quelli interni, il che renderebbe necessario lo sviluppo di strutture e di deleghe personali tali da trasformare la natura profonda del movimento stesso, verso una maggiore pluralità, una più ampia e visibile dialettica e, persino, un diverso rapporto con i media. Se già i due improbabili capigruppo parlamentari stanno esprimendo differenze e disagi, ci si può immaginare cosa accadrebbe con un ministro o un rappresentante in una commissione governativa.
L'arroccamento del movimento, la sua litania di intransigenza e le continue scomuniche del proprietario verso chi si distanzia dalla linea ufficiale rispondono, insomma, essenzialmente a esigenze di controllo interno, per bloccare l'evoluzione del M5S verso la forma di soggetto politico plurale. A queste condizioni, una forte riduzione del consenso elettorale non sarebbe vista come una sconfitta ma come un necessario passaggio di depurazione, per ribadire la litania di alterità ed estraneità e consolidare l'assetto monolitico del movimento.
Qui, se si vuole, si può misurare la pochezza delle capacità strategiche del proprietario, che si preclude di fatto ogni possibilità di accesso al potere, o di azione concreta sulle cose, pur di conservare il proprio predominio. Se è possibile governare in Sicilia, ciò avviene perché il livello locale non interessa al proprietario, che comunica direttamente con le masse per via diretta, con i suoi comizi nelle piazze e sul suo similblog, o per via indiretta, attraverso le televisioni che riportano i suoi slogan e la sua estetica. Partecipare al governo del Paese creerebbe, necessariamente, una moltiplicazione dei canali di comunicazione e dei soggetti che vi avrebbero accesso, mettendo in crisi un modello di leadership che si definisce, più che secondo le categorie classiche della politica, secondo quelle del marketing, e nemmeno di quello più moderno: l'importante è controllare il brand e trasmetterlo, impedendo a chiunque di contribuire a determinarlo.