mercoledì 10 aprile 2013

Strategia e fattore tempo

Analizzare le prospettive strategiche nel loro farsi è un'attività difficile e rischiosa, per tre ordini di motivi. In primo luogo, perché identifica gli attori semplificandoli spesso eccessivamente, riducendoli di necessità a soggetti unitari: la strategia è ciò che dà per scontata la tattica, il che va benissimo quando si ricostruisce a posteriori il senso degli eventi, ma può essere letale nel loro corso. In secondo luogo, questa pratica presume che il quadro sia chiaro, mentre le informazioni, in corso d'opera, sono sempre incomplete e inattendibili. Infine, e questo è l'aspetto di maggiore importanza, perché le motivazioni e gli obiettivi delle diverse parti in causa sono raramente chiari agli osservatori esterni, e spesso non lo sono nemmeno agli attori stessi; ciò vale nella strategia militare, dove almeno a grandi linee non è difficilissimo capire quali siano gli scopi, e vale molto di più nella strategia politica.

Nell'interpretare le posizioni di forza relativa e le possibili strategie per i tre principali attori dello scenario politico italiano, può essere allora utile misurarle rispetto a una dimensione, essenziale a ogni sviluppo strategico: quella del tempo. Ogni strategia, infatti, si sviluppa nel tempo, e si può dire che la differenza essenziale tra la dimensione tattica e quella strategica si giochi proprio sulla diversa importanza di questo fattore: la tattica parte da una situazione data e vi incide in un periodo limitato e sostanzialmente unitario, la strategia parte da un quadro generale che si sviluppa in gran parte autonomamente e tutte le azioni intraprese dai diversi attori hanno effetti che si dispiegano lungo archi temporali diversi e collegati.

Sembra chiaro che il PDL non possa che essere danneggiato dal passare del tempo: da una parte, le minacce giudiziarie prendono sempre più corpo, dall'altra un Parlamento maggioritariamente ostile, con forze che devono comunque motivare la loro esistenza, prima o poi dovrà prendere provvedimenti assai pericolosi per il loro leader. Anche il forte consenso ottenuto nelle ultime elezioni, e che si è presumibilmente rafforzato nelle ultime settimane, può cominciare a erodersi di fronte al crescente isolamento politico. Proprio per questo, il centrodestra ha ogni vantaggio a che si arrivi al più presto a un governo di compromesso o a nuove elezioni, approfittando della confusione tra le fila dell'avversario principale.

Anche per il movimento cinque stelle più il tempo passa, più le cose si complicano, e su diversi fronti. Innanzitutto, la tenuta del gruppo parlamentare non è affatto garantita, come si è visto in queste settimane; il processo di elezione del presidente della Repubblica, l'attività legislativa, le attenzioni dei media sono altrettanti pericoli per la leadership monocratica del movimento. C'è poi il logoramento che subisce ogni strategia basata unicamente sull'attacco continuo a tutti i costi: all'inizio possono essere conseguiti grandi risultati, ma a lungo andare diventa sempre più difficile controllare il terreno guadagnato e conservare la spinta offensiva, mentre il nemico si riorganizza. A questo si aggiunge il dato strutturale dell'urgenza della crisi economica e sociale, che richiede soluzioni reali e riconoscibili, e che può spingere buona parte dell'elettorato di protesta a cercare opzioni più pragmatiche. Se l'erosione del consenso elettorale può non essere un grande problema per un partito non interessato al governo, almeno nelle sue forme istituzionali, la possibilità di recuperare voti può rafforzare gli avversari.

Il PD, ovviamente, non si trova nella posizione di poter trarre il massimo vantaggio dall'uso accorto di tattiche dilatorie. Le fratture al suo interno, le impazienze renziane, le faide per la successione di Bersani rendono molto difficile l'utilizzo del fattore tempo, per il quale la compattezza sul fronte interno è un fattore necessario, se non indispensabile. L'unico modo per superare questa difficoltà e per non logorarsi quanto gli avversari è la definizione di una linea di condotta rigorosa e condivisa, il che pare al di là della portata del partito democratico: la delusione per la mancata vittoria elettorale e lo spaesamento per un quadro politico che non sembra offrire alternative tra alleanze improponibili o impossibili e il voto, con la congerie di assestamenti interni, primarie e altri disastri che lo accompagnerebbero, impongono al PD un senso di urgenza forse eccessivo.

Eppure, la faccenda sarebbe chiara: si tratta di farsi rinnovare il mandato esplorativo per cercare la fiducia in Parlamento, passare a Montecitorio, correre l'alea in Senato e rimanere eventualmente in carica per il disbrigo degli affari correnti, gestendo la partita del Quirinale e lasciando alle camere il compito di trovare l'accordo su progetti concreti, fino a sparigliare le carte e ottenere una fiducia piena. Per questo, sarebbe opportuno vedere il bluff di M5S e mettere al più presto al lavoro il Parlamento, per scollare i gruppi parlamentari dal guru e trovare aperture nella prassi quotidiana. Allo stesso tempo, sarebbe imperativo eleggere un Presidente della Repubblica autorevole, non troppo legato a qualche partito ma dotata di una forte identità politica di sinistra: per esempio uno come Rodotà. o come Barbara Spinelli, che possano essere   indigesti al punto giusto al PDL e che rendano abbastanza difficile il niet dei pentastellati.

In questo modo, si potrebbe dare alla legislatura il tempo di svilupparsi con iniziative pragmatiche e incisive, proprio in virtù della mancanza di una maggioranza stabile, mettendo Renzi nell'angolo e riassestando il partito democratico verso una successione solida e credibile, mentre gli avversari si sfarinano. Ma applicare un simile progetto è forse inconciliabile con il tragico autolesionismo piddino.

Nessun commento:

Posta un commento